Voglio essere anche io nel monastero Wi-Fi, ma come si fa?
È la domanda più frequente che mi sono sentita rivolgere di recente, non solo sabato all’incontro a san Giovanni in Laterano, ma anche in tante altre occasioni, soprattutto quando sono andata in giro per l’Italia a parlare dei pilastri della vita spirituale, che provo ad accennare – per quel che ne ho capito io, finora: non è molto, ma è tutto quello che so – in Si salvi chi vuole.
E ogni volta mi vergogno un po’ a rispondere a questa domanda – come si entra nel monastero Wi-Fi – perché nella sostanza altro non è che la Chiesa, la comunione dei santi, cioè di coloro che provano a prendere sul serio il proprio battesimo. Quindi ovviamente è una cosa che è già di tutti, e non ho inventato niente, ma solo un’espressione.
Anzi, adesso che ci penso, anche questo modo di dire – stiamo connesse – non ha manco il mio copyright: lo ha inventato una mia amica ingegnere, che mi prometteva preghiere ogni volta che partivo per un incontro in giro per l’Italia. “Stiamo commesse via cavo, anzi Wi-Fi” mi ha detto una volta. Piano piano ho adottato questa espressione con le amiche che ho incontrato viaggiando, alcune delle quali sono diventate amiche strettissime, anche se vivono a Piacenza, Brescia, Verona, in Toscana e in molte altre città (e ultimamente ho scoperto un modello top di gamma in Liguria, e pure in vari esemplari, come si sa): sono amiche con cui ci si apre il cuore, e quindi la distanza conta poco, così come anche la frequenza
Ma nello stesso tempo, c’è una realtà, che esiste davvero, ed è dappertutto, invisibile ma luminosa: sono le piccole comunità dei credenti che, nella generale indifferenza a Dio nella quale il mondo oggi vive immerso, hanno avuto una gran botta di fortuna (teologicamente sarebbe più corretto dire grazia, ma Pretty Woman userebbe un’espressione diversa), cioè hanno capito che Dio è Padre, che ti sostiene e non ti blocca, come crede il mondo, che ti vuole far vivere e non ti frega, che ti vuole far fiorire e non ti castra. Persone che, dal momento che hanno intuito questa verità, cercano di starle attaccati con le unghie e coi denti, e di trovare tempo e spazio per stare con Dio, come due fidanzati che, magari di nascosto dai genitori, magari rubando tempo ai compiti e agli amici, cascasse il mondo trovano sempre il modo di mettersi gli occhi negli occhi, almeno per qualche minuto, ogni giorno.
Non ci sono regole per appartenere al Monastero Wi-Fi, se non quella di prendere sul serio la vita spirituale, di dedicarsi con regolarità alla preghiera (come ha detto don Fabio: non ci sono regole, ma ritmi: se anche dici i vespri sul fuso di Kuala Lumpur, pazienza, intanto però li hai detti), di stare nei sacramenti (andare a messa, magari più spesso che solo la domenica, se si riesce; confessarsi regolarmente…), di obbedire alla vocazione di stato (la realtà è il nostro chiostro, come ha detto suor Fulvia), di leggere e studiare, usare la nostra intelligenza al massimo nella vita spirituale. Perché, non serve ricordarlo, la fede è sempre potenziata dall’intelligenza, che non la ostacola mai, contrariamente a quello che sostengono quelli che non hanno conosciuto l’amore di Dio (forse anche per colpa nostra?).
Padre Emidio nella sua catechesi distingueva risultati e frutti. Il risultato è stato convocare duemila persone: una cosa meravigliosa, non serve che ce lo stiamo a ripetere. Ma i frutti (che come spiegava Emidio sono qualcosa che resta , e che è riproducibile)? I frutti ci saranno se qualcuna delle duemila persone comincerà a fare sul serio con la vita spirituale.
Quindi a leggere sul serio la Parola di Dio, prendendo da lì i criteri per conoscere il suo volto, ricordando che la fede è qualcosa di preciso, molto preciso, come una password key sensitive, e non una lasagna, che se aggiungi o togli un po’ di sugo sempre lasagna rimane (se sbagli anche di poco la password non apri il mistero di Dio).
A pregare, ricordando che la preghiera per eccellenza è il cuore del Padre Nostro, cioè dire “sia fatta la tua volontà”.
A confessarsi, sapendo che senza la diagnosi che la confessione ti fa, il medico non può darti la cura della tua anima.
Ad andare a messa, il cuore della nostra vita, il momento in cui siamo contemporanei al mistero della morte e risurrezione di Cristo, e possiamo appartenergli così tanto che lui si lascia mangiare da noi.
A digiunare, perché senza il sì della nostra ascesi manca qualcosa al lavoro di scalpello che la grazia fa su di noi.
Tutto questo, sempre rimanendo attaccati alla Chiesa in piena obbedienza, perché la Chiesa è l’unica garanzia che abbiamo che ciò in cui crediamo è vero, e non è una nostra proiezione o fantasia. Perché la Chiesa è una madre generosa, ed è stata voluta da Cristo, ed è l’unica via che abbiamo per arrivare a lui.
Come continuerà questa strana avventura che doveva essere di venti amiche, ed è diventata di duemila (che poi adesso che ci penso è esattamente il centuplo)? Non lo sappiamo ancora, ci stiamo pensando. Certo troveremo il modo di aiutarci reciprocamente nella vita spirituale, perché abbiamo bisogno di appartenere a qualcosa insieme.
Intanto di stimoli per fare le cose ne abbiamo ricevuti tanti, sabato.
Ognuno di noi in cuor suo avrà preso un impegno, ed è ora di metterci al lavoro, seriamente, in attesa di rivederci.
Tre piccoli consigli.
Primo: partire da una piccola cosa a cui essere fedeli, e poi casomai aumentare. Che so, aggiungere una messa infrasettimanale, o un’ora della liturgia (vespri o lodi), un momento di adorazione… Ognuno sa a che punto sta nella propria vita spirituale, e dove può educarsi per crescere.
Secondo: cercare un confessore, se non una guida spirituale, che faccia da specchio, davanti al quale (o alla quale) andare a fare la brutta figura di dire “volevo trasformarmi in un monaco del Monte Athos, e invece oggi e ieri e l’altro ieri non ho detto manco un’Ave Maria”.
Terzo: come ha detto suor Fulvia leggere, studiare, applicarci. Io per obbedirle oggi ho ripreso in mano Gaudete et exsultate, che avevo già letto (e recensito), ma che vale la pena rileggere, perché parla di noi, di come diventare santi nelle nostre cattedrali domestiche, scolpendo con cura e con amore, nel segreto, ogni particolare della nostra vita
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